La fruizione dei Beni Culturali come diritto sancito dalla Costituzione

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Di Daniela Aiello

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Siamo abituati a guardare ai beni culturali e all’archeologia come opportunità di valorizzazione economica. Dimentichiamo che essi sono, soprattutto, un diritto di cittadinanza. Infatti, l’articolo 9 della Costituzione pone in capo allo Stato l’uso dei beni culturali come strumento di promozione culturale. In altre parole, la Costituzione dice che l’interesse pubblico riguarda la fruibilità di tali beni nel nostro Paese. Ma davvero in Italia l’archeologia e i beni culturali sono per tutti? O ci sono fasce d’utenza escluse in partenza? Ma soprattutto, quali sono gli strumenti utilizzati per la promozione dei beni culturali e archeologici nel nostro Paese? Oggi una grossa fetta di popolazione rimane totalmente esclusa da attività culturali, che sembrano riservate a quegli utenti ormai avvezzi a frequentare tali attività. Il tipico fruitore di musei, siti e parchi archeologici ha un’istruzione medio-alta: è colui che sa orientarsi nella ricerca dei luoghi da visitare in funzione dei propri interessi, ma soprattutto delle proprie conoscenze. Troppo poche o quasi inesistenti sono le attività di promozione verso i potenziali fruitori con un’istruzione medio-bassa. Un’altissima percentuale di soggetti non è a conoscenza di quel diritto di cittadinanza, sancito dalla nostra Costituzione. Questo vuoto è da addebitare anche al nostro sistema scolastico, sempre più complesso e difficile da gestire. Il tutto si traduce in una vera e propria emergenza educativa della società contemporanea, nella quale le politiche nazionali non riescono, ad oggi, a dare risposte sufficientemente efficaci.

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La scolarizzazione di massa, a partire dagli anni ’70, ha paradossalmente evidenziato l’incapacità dello Stato di garantire uguali opportunità formative e dare risposte alle emergenze sociali e culturali. L’istituzione-scuola, oggi, sta diventando un’organizzazione sempre più complessa e difficile da organizzare, soprattutto nei paesi tecnologicamente avanzati come l’Italia. Stando all’analisi del portale Skuola.net, secondo quanto emerge dalla relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione per il 2020, la percentuale dei giovani nella fascia di età compresa tra i 18 e i 24 anni che abbandonano, precocemente, l’istruzione e la formazione è stata del 13,5% (numeri relativi al 2019, ovvero prima dello scoppio della pandemia). A preoccupare ancor di più è il confronto con il resto d’Europa, infatti, peggio di noi fanno solo cinque nazioni: Islanda, Spagna, Malta, Romania e Bulgaria. Oltretutto sul capitolo istruzione si registrano differenze, anche, fra le regioni d’Italia, che si amplificano col passare del tempo. Se al Nord l’obbiettivo europeo del 10% si può dire raggiunto, al Sud la media schizza al 16,7%; con i ragazzi che hanno più probabilità delle ragazze di abbandonare la scuola prematuramente. Questo fenomeno, però, raramente fa notizia. Non ci sono spargimenti di sangue, terremoti o tzunami, nessun allarme se non un branco di ragazzini con poca voglia di studiare.

A seconda dai punti di vista si parla di fannulloni che sprecano il loro tempo, oppure di giovani vittime della crisi, che si rimboccano le maniche e vanno a lavorare per dare un aiuto alla famiglia. La dispersione scolastica, è un fenomeno che ci aiuta a capire quanto equa e democratica sia una società. Purtroppo nel nostro Paese i giovani lasciano la scuola o la frequentano in modo irregolare, anche per motivi socio-economici. Povertà della famiglia o del territorio di origine, differenze culturali o di genere, scarsa efficacia dell’istruzione ricevuta in passato e incertezza delle prospettive occupazionali, sono solo alcuni esempi. Inevitabilmente la situazione continuerà a peggiorare anche nell’età adulta, infatti, la mancanza di un titolo di studio condannerà i giovani che abbandonano la scuola ad avere meno opportunità, perpetuando le disuguaglianze che hanno generato il fenomeno. Tutto ciò comporta un costo per lo Stato in termini di misure di protezione sociale e criminalità e dunque minore ricchezza nazionale. Ecco perché le disuguaglianze riguardano tutti e non solo i diretti interessati.

Viviamo in un periodo storico scandito da cambiamenti sociali, migrazioni e progresso tecnologico. I nostri musei, i parchi archeologici e i nostri monumenti possono e devono conquistare uno spazio importante nella nostra società. Possono diventare luogo d’incontro, dialogo e dibattito, raccogliendo l’eredità dei nostri avi, luoghi in cui analizzare i grandi temi del nostro tempo. Senza mai dimenticare che sono luoghi di ricerca e studio, va curato il rapporto con i potenziali fruitori, cercando di mettere al centro questi ultimi. Didattica, educazione e mediazione sono strumenti fondamentali per creare un dialogo, che stimoli una narrazione costruttiva tra istituzioni e società. Se davvero si vuole dare al nostro patrimonio culturale un ruolo sociale non si può non coinvolgere le diverse fasce d’utenza, rendendoli partecipi delle dinamiche politiche e sociali, attraverso progetti pensati e costruiti per favorire l’inclusione e la condivisione. Purtroppo il movimento delle fasce sociali più vulnerabili verso i luoghi della cultura è lento e talvolta occasionale.

Nasce, dunque, l’esigenza di un miglioramento delle condizioni di accessibilità: fisica, culturale, cognitiva ed economica. Tutto questo è un dovere delle istituzioni che gestiscono i nostri beni culturali. E’ quindi essenziale lo studio sui potenziali fruitori che sono tanti, diversi e non sempre interessati a partecipare. Un lavoro difficile quello dei professionisti che si occupano del nostro patrimonio culturale che da una parte devono avere uno sguardo attento al bene culturale, dall’altra non possono trascurare cambiamenti e tendenze della società contemporanea. I professionisti dei beni culturali e archeologici sono impegnati in una riflessione costante su alcuni aspetti del loro lavoro: ad esempio quello comunicativo, che implica il dialogo tra culture e lingue diverse; la valorizzazione dei monumenti, degli oggetti esposti nei musei e il loro ruolo sociale; la valorizzazione dei fruitori, della loro creatività e capacità espressiva attraverso il patrimonio culturale; il dover rendere attraenti le esperienze culturali per coinvolgere i potenziali fruitori, non sempre interessati.

E’ indispensabile che i luoghi della cultura escano dalle proprie muraper poter studiare, incontrare e contaminarsi con la società e il territorio. Bisogna inventare una cultura itinerante che riesca a raggiungere le masse e favorisca l’inclusione dei singoli individui in comunità attive e connesse col proprio territorio. Solo così i nostri monumenti possono avere un ruolo determinante nel diffondere la storia e il valore dei luoghi, ma anche a tutelarli e salvaguardarli. La sensibilizzazione della società civile alla partecipazione consapevole e democratica produrrà notevoli vantaggi, anche da un punto di vista della sostenibilità ambientale. La partecipazione alla vita culturale e al progresso scientifico della comunità è un diritto universale dell’uomo. Siamo una società multiculturale dove il fenomeno migratorio è forte e l’incontro con gli altri ci porta nuovi modi di vedere, diversi punti di vista, che non solo agiscono nella nostra forma mentis, ma ci aiutano anche a leggere la storia e i nostri beni culturali, archeologici e monumenti, con occhi diversi. Bisogna cominciare a creare progetti a cui possano avere accesso tutti i cittadini, senza alcuna discriminazione e fare in modo che beni culturali e archeologia, non siano privilegi, bensì un diritto per tutte le fasce d’utenza. I nostri beni culturali e archeologici sono depositari della nostra stessa memoria e dunque della nostra cultura: in ogni frammento di capitello, in ogni coccio di ceramica, in ogni oggetto usato dai nostri avi c’è la nostra storia, composta a sua volta da milioni di storie. Attraverso la narrazione e i racconti possiamo creare quegli strumenti utili alla democratizzazione della cultura. In un momento in cui il progresso e la tecnologia sembrano spingerci, paradossalmente, verso una condizione di solitudine collettiva, c’è bisogno di una volontà politica e sociale che inverta la rotta, mirando a costruire la cultura del proprio territorio e della propria comunità. Occorre attutire l’impatto dei social network che tendono a stereotipare l’individuo, includendolo in una massa omogenea.

La creatività, l’arte e la cultura di popoli antichi ci insegnano che la condivisione delle emozioni e la partecipazione attiva possono avere funzione didattica. Imparando da loro, oggi, la fruizione dei beni culturali e archeologici deve avere finalità dirette alla conoscenza e all’educazione e non solo al mero intrattenimento. Creare dibattiti sulle “moderne” metropoli che contengono le “antiche” città e la loro coesistenza tra “vecchio” e “nuovo”, nel medesimo istante: entrare in un moderno edificio per visitare un museo e trovarsi catapultati nella preistoria della propria città; attraversare l’ingresso di un portone uguale agli altri e scoprire l’antica e monumentale cavea di un antico teatro, tornando indietro di più di duemila anni, in un tempo che vide i nostri antenati nello stesso magico luogo. Un esempio, straordinariamente, innovativo è rappresentato dall’invenzione del teatro, uno dei contributi più importanti che la civiltà ellenica ha trasmesso all’Occidente. Per fortuna, sono sopravvissute una quantità sufficiente di opere che ci permette di farci un’idea adeguata del loro carattere artistico e concettuale. Il teatro di V secolo ha due caratteristiche sostanziali: la prima è che si rivolge alla collettività e non al singolo individuo; la seconda è che presuppone una fruizione fondata su un’esperienza visivo-uditiva: i tragediografi di V secolo erano coscienti che l’unico modo per rendere pubbliche le loro opere, era metterle in scena. Infatti gli elleni erano un popolo di spettatori, oltre ad essere buoni osservatori ed eccellenti narratori. D’altro canto, non dobbiamo dimenticare le molteplici valenze dell’esperienza teatrale. Anzitutto il teatro fu un fenomeno religioso, che veniva celebrato durante le festività in onore del dio Dioniso. Un altro elemento tipico del teatro greco è il contesto agonistico: ad Atene si svolgeva un concorso tra gli autori delle opere letterarie, durante le suddette festività. Un collegio di giudici stabiliva fra i concorrenti una graduatoria, seguita da una premiazione. Ma l’aspetto più sorprendente del teatro greco di V secolo a. C. è la sua funzione educativa: l’organizzazione degli spettacoli era gestita dallo Stato ed erano anche un fatto politico; grazie alla costituzione dello stato ateniese, una comunità di uomini liberi era responsabile e partecipe di ogni potere nel governo della città. La democrazia è partecipazione e una rappresentazione teatrale era un’occasione, per un buon cittadino, di partecipare alla vita collettiva. 

La comunità cittadina rappresentava sia il committente che il destinatario di un’esperienza, che non era solo mero intrattenimento. Un chiaro esempio del suddetto meccanismo è rappresentato dalle tragedie che rendevano il loro pubblico, non solo partecipe, ma per certi versi, giudice dei complessi problemi morali in cui i protagonisti della rappresentazione rivendicavano giustizia, lì dove era difficile separare il giusto dall’ingiusto. Quasi tutti i drammi rimastici pongono l’accento, non tanto sul giudizio, quanto sulla decisione e sul momento in cui il protagonista di fronte ad una scelta evidenzia il tormento e il dolore. Questa drammatizzazione della decisione, faceva rivivere al pubblico, le scelte della loro vita quotidiana, creando quel sentimento di partecipazione che faceva sentire il singolo individuo, parte di qualcosa di più grande: la comunità. Sappiamo che la tragedia attica ha avuto origine con la democrazia e fu in questo clima democratico, che lo spazio teatrale, divenne lo strumento fondamentale per favorire i dibattiti sulle problematiche contemporanee, diventando più un luogo d’integrazione culturale piuttosto che luogo di mero intrattenimento. Da un punto di vista istituzionale, al teatro, veniva riconosciuta una funzione educativa; questo aspetto è testimoniato dall’interesse, che per gli spettacoli teatrali mostrarono, prestigiosi uomini politici ateniesi: Pericle, nel suo straordinario programma di edilizia pubblica, riservò un posto di rilievo agli edifici teatrali, facendo, innanzitutto, ristrutturare il teatro di Dioniso e costruendo il nuovo edificio dell’Odeon. Ma, Pericle, fece molto di più, infatti istituì un contributo statale, il theorikòn, grazie al quale anche i ceti meno abbienti avrebbero potuto partecipare agli spettacoli teatrali. Le rappresentazioni furono, soprattutto, una palestra di idee ed educazione per un intero popolo, che a teatro vedeva rappresentati i valori religiosi, etici e sociali. Sulla scena, erano motivo di costante dibattito, atteggiamenti, valori e problemi che riguardavano l’uomo, non come singolo individuo, bensì come cittadino della polis. Accanto all’attualità, inoltre, venivano affrontati altri argomenti, come ad esempio, il rapporto con il divino o con la morte, che incombeva prepotente sin dalla nascita di ogni singolo uomo; la malattia e le fragilità umane; il cambiamento improvviso della sorte. Insomma, la democrazia, gli ideali di uguaglianza, quel modello occidentale di cui si parla tanto oggi, nascono ad Atene: dove una civiltà, “eminentemente urbanizzata ed estremamente intellettualizzata” (Ranuccio Bianchi Bandinelli), è riuscita a concretizzare i suddetti concetti, anche, attraverso il teatro. Un luogo che nasce come spazio aperto alla discussione, in cui l’educazione e la crescita culturale erano destinati ad un’intera comunità. Noi siamo gli eredi di questo grande popolo che aveva lo sguardo all’orizzonte e la mente oltre: i Greci. E pensando a loro dobbiamo renderci conto, che non possiamo permetterci di vivere in una società che considera la cultura un costo e la formazione una spesa, rischiando di trascurare quanto costosa sia l’ignoranza.

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